Roma Termini
Percorro tante volte questa strada, via Giolitti, risalendola lunga lunga dal mercato dell’Esquilino, dove ci sono le aule dell’università, su fino a Termini, costeggiando alla mia destra tutta la stazione. Ogni volta, a mano a mano che mi avvicino comincio a intravedere i primi fagotti colorati, solitamente sul beige, più raramente celestini o verdini, o di una fantasia pastello. Avanzo ancora e ci passo a fianco a quei fagotti, uno di seguito all’altro, rannicchiati sul marmo nero lucido di Termini contro le pareti a vetro dei negozi e dei bar che invitano il viaggiatore a trascorrere al caldo e in comodità, dall’altra parte del vetro, il tempo dell’attesa. Qualche fagotto è immobile, qualche altro si anima di tanto in tanto. Li guardo uno ad uno, lo faccio sempre, ogni volta che ci passo accanto. Alcuni di essi ho imparato a riconoscerli, sono presenze fisse; altri cambiano, spero sempre che non sia per motivi fatali. Ho notato che tra le presenze fisse alcuni hanno strutturato delle abitudini: dispongono i loro pochissimi e di fortuna effetti personali sempre nello stesso modo, organizzano il giaciglio di cartoni e pezze sempre con lo stesso criterio. Forse per desiderio-necessità di delimitare uno spazio di privatezza, nonostante tutto, per dire a se stessi e dirci “questo cantuccio è il mio spazio personale”. Li guardo perché? Perché ne ho bisogno. Perché se faccio come se non ci fossero, come se fossero trasparenti, mi sembra di aggiungere altra crudeltà alla crudeltà che già patiscono. Perché voglio tenerli negli occhi. Perché mi vergogno e voglio provare vergogna ogni volta.