Editoriale, in “Amaltea. Trimestrale di cultura“, Anno IV – n. 3, settembre 2009.

A Taiji, nell’arcipelago giapponese, da oltre 400 anni ha luogo la mattanza dei delfini.
Il macabro ‘rituale’ si ripete ogni anno, in questo mese di settembre e fino a marzo, tra le discrete e quasi inaccessibili insenature della costa nipponica, che si tinge del rosso del sangue dei delfini, massacrati a migliaia. Più di tremila.
Rick O’Barry, alla guida di un gruppo di ambientalisti, è riuscito avventurosamente, tra numerosi rischi e boicottaggi, a raggiungere Taiji e girare per la prima volta un documen-tario su quanto accade in quella baia. Mentre leggo la notizia su L’Espresso di questa settimana provo un profondo disgusto oltre che indignazione, come credo accadrebbe ai più. Poi, poco oltre nell’articolo, leggo che i pescatori di Taiji hanno protestato veementemente contro gli ambientalisti occidentali accusandoli di essere intrusivi e assolutamente irrispettosi della loro cultura e delle loro tradizioni: “la volete finire – cito testualmente dal giornale – col volerci imporre i vostri valori? Dopo i diritti fondamentali dell’uomo, volete imporci anche quelli degli animali? Pensate ai vostri polli, ai vostri vitelli, alle vostre oche e ai vostri visoni”. Touché.
Qualche domanda me la faccio.
Soprattutto: quale è il senso della mattanza dei delfini per quei pescatori, le loro famiglie, la loro comunità, lì, a Taiji, in Giappone, nel 2009?
Per rispondere sarebbe necessario considerare i pescatori, le famiglie, la comunità, Taiji, il Giappone, l’anno che viviamo e forse anche altro ancora.
I significati di una prassi sono dati dal contesto entro cui tale prassi si inscrive.
Se cambia il contesto cambiano pure i significati.
Contesto vuol dire…

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