I frantoi ipogei sono una presenza costante in tutto il territorio della provincia di Lecce e i paesi della Grecìa Salentina, in particolare, ne annoverano almeno uno. Si tratta di costruzioni che hanno avuto origine nelle isole egee e che si sono poi diffuse in tutto il Salento a partire dal ‘400, grazie soprattutto al fatto che, essendo ricavati nel sottosuolo, consentivano di mantenere una temperatura costante durante le fasi di produzione dell’olio.

A Melpignano vi erano numerosi frantoi ipogei, di questi uno è stato recuperato ed è visitabile, altri sono stati interrati, qualcuno attende d’essere restaurato e messo a disposizione della fruizione di turisti e curiosi.

Una mappa del XVIII secolo attesta la presenza sul territorio comunale di ben sette frantoi ipogei, i più di servizio ai grandi proprietari del luogo, quindi nelle prossimità delle loro dimore.

Il frantoio recuperato è quello baronale.

A pochi metri dalla piazza del paese, quasi di fronte alla facciata del Palazzo baronale si trova l’ingresso al frantoio ipogeo, una piccola porticina da cui partono immediatamente una serie di gradini scavati nella pietra che portano giù, nelle viscere della terra sembrerebbe, in un sistema senza luce di stanze, cunicoli, canali di varia grandezza e vasche di raccolta, il tutto sempre ricavato nella roccia.

Era lì che un tempo i “trappitari” lavoravano per tirare fuori il prezioso “liquido giallo”, divisi tra torchi, mole, e quelle grandi macine di pietra che ora sono immobili, verdi, del verde del muschio che le ricopre. E’ rimasto, negli anni, quell’odore, nauseabondo, inconfondibile, di sansa, solo una traccia labile di quella che doveva essere l’aria che si respirava laggiù. I “trappitari” vi scendevano ogni giorno secondo un preciso e consueto rituale di gesti, mentre un asino o un cavallo girava intorno all’enorme vasca di pietra spingendo un palo di legno di quercia collegato alla macina che a sua volta girava triturando le olive, rendendole poltiglia. L’animale rimaneva per tutto il tempo della durata della campagna olearia negli angusti spazi del frantoio e spesso a conclusione del ciclo, oramai esausto e – a causa del buio perenne – divenuto cieco, veniva ammazzato e consumato.

I tempi delle ritmate operazioni veniva scandito e diretto dall’ “anikìrio”, termine griko ad indicare il capo del personale del frantoio, il timoniere di quella sorta di stiva di pietra sotterranea. Figura fondamentale, era l’anikìrio “l’officiante” del rituale nel frantoio: comandava gli uomini nelle articolate operazioni di estrazione dell’olio, ed anche quando arrivava il momento della pausa era sempre lui a darvi inizio.

Arrivavano delle donne, mogli o madri dei trappitari, che scendevano nel frantoio portando ‘pucce’ e ‘pignata’; allora l’anikìrio contava prima i commensali, poi prendeva il mosto di olio e lo versava in un grande piatto comune e compiva il rito dell’assaggio. Spezzava il pane e lo intingeva nella pignata, quindi era la volta, a turno, di tutti gli altri, a seconda del ruolo ricoperto nel frantoio; poi si arrivava al vino, bevuto da un brocca dall’anikìrio e quindi passata in tondo a tutti gli altri. Teatro di quest’unico momento conviviale del frantoio erano alcuni angoli più appartati , dove si trovavano dei sedili di pietra ricavati nelle pareti e delle lastre, sempre di pietra, sovrapposte tra loro a mo’ di tavolo.

(Grecìa del Salento-Il Corsivo, settembre 1999)