Ogni mattina sorseggiava il suo caffè, mentre il profumo riempiva le stanze e si ficcava nelle narici di lei e dei suoi fratelli ancora nel sonno, poi si vestiva e usciva di casa. All’ora di pranzo da dentro la casa si cominciava a udire flebile quell’insostituibile vecchia bicicletta, quella che era di suo padre e da cui non si era mai separato; quel suono dei pedali e della catena era inconfondibile; si poteva avvertire già appena imboccava la strada di casa e poi cresceva e diveniva sempre più chiaro a mano a mano che la percorreva in tutta la sua lunghezza e si avvicinava a casa, l’ultima porta della strada. Infine la bicicletta si faceva muta e cedeva il suono al campanello.
Chi apre?… Vai tu… uffa no vai tu… e dai! sempre io vado ad aprire quando arriva, questa volta no vai tu…il consueto frastuono di ordini reciproci, accuse e sbuffate, poi qualcuno cedeva, la porta si apriva e lui entrava. Ciao papà.
La tavola apparecchiata, sguardi, discorsi sul lavoro, parole dette da cancellare, parole mancate nell’attesa di un tempo ingannatore, richieste e divieti, abbracci, silenzi necessari, la pennichella sul divano, i soldi sempre pochi, il bar e gli amici, le partite a carte, l’idiosincrasia per l’automobile, la timidezza.
E poi, improvvise, le strette di mano, le parole sussurrate, le litanie.
E la bicicletta è rimasta muta.