Recensione: Un romanzo teatrale
Ada Manfreda, Un romanzo teatrale, “Il Paese Nuovo”, Culture p. 5, domenica 20 gennaio 2013
Nella vita di un attore oramai affermato, ricco e non più giovane irrompe l’EVENTO. Comincia il racconto. L’attore, Marcello Magni, si ritrova ad esercitare una paternità non voluta, ad accogliere un figlio mai incontrato, mai cercato; un incidente era stato e come tale l’aveva gestito, un’incombenza economica, burocratica, di cui si era fatto carico quel tanto che gli aveva consentito negli anni di mettersi in pace con la coscienza e allo stesso tempo di addomesticare tutta la faccenda ed evitare che divenisse pasto succulento per le riviste di gossip. Ma le cose precipitano. Quel bambino-evento gli impone una radicale riflessione su tutto il suo percorso esistenziale, sul suo egocentrismo, le sue paure, il suo essere uomo, la sua professione di attore. Si inseguono così i ricordi/dialogo tra sé e sé, le confessioni epistolari all’unica donna veramente amata e tenuta all’oscuro di ogni cosa, i tentativi di relazione con il ‘nuovo’ figlio a cui cerca di raccontarsi, goffamente. Ne vien fuori la storia di una ricerca: di che cosa? Di ciò che il suo maestro di recitazione gli aveva detto di aver trovato, dopo una vibrante interpretazione dello Spettro di Amleto, l’ultima della sua vita: il segreto, il ’sacro Graal’, ciò che gli aveva permesso di recitare senza recitare, senza cioè che vi vosse “diaframma intellettuale fra la parola e l’animazione del corpo, il quale, tranne che per significativi microgesti, si atteggiava per precise sequenze in un’apparente immobilità. No, non c’era niente di acrobatico o di virtuosistico: era semplicemente vita che fluiva in termini di energia pura e la parola era incarnata e la carne era espressa” (p. 42). È la ricerca della ‘verità’ del teatro e contemporaneamente è la ricerca della verità di una vita: “l’arte non era fingere, era questa manifestazione di una presenza, che materializza una vita organica. L’avevo trovato il Graal, anzi a me piaceva pensare di aver scoperto la pietra filosofale della mia arte, ma trovarla non significava affatto poterla usare. […] Capire non è fare […], e capire e non fare […] è una maledizione forse peggiore di non capire affatto” (p. 74-75). Ecco perché quel sottotitolo: romanzo teatrale. È – quella di Perrelli – una narrazione che viene dal teatro, che si bagna nel teatro, che dice del teatro. Così accanto alle vicende esistenziali del protagonista scorre parallelo un fiume di riflessioni che provengono dalla biografia dell’autore, dalla sua esperienza di critico, di studioso, di conoscitore attento e profondo del teatro, di tanto teatro. “Quando sei in scena – fa dire Perrelli al protagonista – la cosa essenziale non è fingere il personaggio, ma che tu sia lì tutto intero: testa e corpo e che da ciò che fai venga fuori una specie di luce… Chi lavora con te e il pubblico debbono vedere il personaggio attraverso questa luce, la luce della tua presenza” (p. 142). E di conoscitore attento e profondo di tanta letteratura drammatica, soprattutto nord-europea, e delle saghe e dei racconti popolari che sin dalla notte dei tempi quei luoghi hanno accolto, di cui quel teatro è intriso. Vi sono perciò, disseminate qua e là nel racconto principale, tante molliche-indizio di altri racconti, di altre storie, provenienti dalla drammaturgia nordica, che con la storia principale dialogano, si intrecciano, forniscono a quella i rispecchiamenti metaforici per meglio comprendere. Sono delle ‘presenze’ vere e proprie che popolano i vissuti del protagonista, la sua mente che ricorda, i suoi dialoghi con gli altri personaggi, a cui i personaggi della drammaturgia si aggiungono, così che egli finisce col parlare sia con gli uni che con gli altri contemporaneamente. Un appena percettibile tono fantasmatico attraversa tutto il libro e conferisce carica simbolica a molti particolari, messi lì, sembrerebbero en passant, in realtà precisamente progettati da Perrelli. Uno fra tutti è particolarmente suggestivo e – a mio avviso – costituisce l’architrave di tutta la struttura narrativa. Il protagonista, all’inizio del racconto, sta leggendo un copione in un teatro e al punto in cui vi è scritto “Hai visto mai un’allodola in gabbia? Tale è l’anima nel corpo“, giunge una ragazza, che in quel teatro fa la maschera, e lui smette di leggere e fa sesso con lei, concependo il quel momento il figlio che dopo molti anni, come uno straniero venuto da un remoto dimenticato, o come un fantasma, comparirà nella sua vita di anziano e malato. Nell’ultima scena del romanzo, il padre e il figlio hanno appena finito di cenare insieme in un ristorante, dove accanto a loro c’è una tavolata festosa e chiassiosa, il figlio lo saluta per sempre e si allontana e in quel momento il nostro attore scorge tra i commensali una bimbetta vestita di nero che pare un’allodola (proprio com’era soprannominata la bambina Cosette dei Miserabili). L’allodola punteggia l’inizio e la fine dell’evento del figlio: perché l’allodola? Ebbene ho cercato e cercando ho scoperto che l’allodola è un animale che ha nutrito una ricca simbologia per via del suo particolare comportamento nelle mattine della bella stagione: si innalza in volo verticalmente e canta, per poi lasciarsi precipitare ad ali chiuse e riprendere il volo poco prima di toccare il suolo, nuovamente, e con esso ancora il canto. Il suo volare in verticale l’ha resa, nella mitologia nordica, simbolo dello spirito che si eleva, così come nella tradizione cristiana medievale è stata associata alla preghiera, ovvero all’immagine del Cristo. In ogni caso l’allodola, messaggera del mattino che avvisa gli amanti Romeo e Giulietta che è giunto il tempo di separarsi, evoca lo spirito, il pensiero anche, la possibilità di elevarsi, di muoversi verticalmente staccandosi dalla “brumosa vita”, scrive Baudelaire nella poesia titolata proprio Elevazione, perché è “felice chi con forti ali saprà / lanciarsi verso campi luminosi e sereni / e ogni mattina, come le allodole, s’alza / nei pensieri liberamente al cielo / e si libra ben alto sulla vita, e non fa / fatica a intendere i fiori e le altre cose mute!”. Lo comprende, infine, lo stesso Marcello Magni, a conclusione della sua settimana con il figlio ri-trovato, comprende dove avrebbe dovuto cercare il segreto, il ’sacro Graal’, comprende “cosa gli era mancato: uno sguardo più alto nella debolezza e nel bisogno. […] non bastava cercare con affanno, con ansia o sincerità, scavare in profondità, serviva uno scatto in elevazione. Solo orizzontalmente aveva cercato, non verticalmente” (p. 168).