Ada Manfreda, Che il recinto non sia un ring, in “Spagine. Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri”, dicembre 2013, anno I

“…vuole rappresentare i dispositivi della violenza che imprigionano i due protagonisti in un doppio vincolo indissolubile, entro cui la vittima non riesce a sottrarsi dall’esser vittima, e il carnefice è dominato anch’egli da una sorta di comando ad aggredire”

Due novelli sposini che entrano in scena e quasi danzando, soavemente e ludicamente, compongono la loro casa: sistemano i mobili, scartano i regali, dispongono gli oggetti che costituiranno il loro quotidiano da quel momento in avanti e per sempre.Una musica melanconica, leggera e con retrogusto amaro, di fisarmonica, accompagna questa sorta di danza-composizione, generando sin dai primi istanti un senso di ambiguità indecidibile sul colore vero di quei momenti, se essi sian lieti o tragici.Gli sposini continuano a dirsi reciprocamente: “come sarà?, come sarà, chi lo sa, chi lo sa…” in un misto di speranza e curiosità. Tutto è disposto entro uno spazio perfettamente quadrato, ai cui angoli vi sono dei pali attorno a cui i due sposini legano dei fili, sono luci colorate intermittenti. Dispongono questi fili insieme, cooperando armoniosamente, lungo tutto il perimetro quadrato della loro casa. Sono diventati un recinto entro cui loro rimangono chiusi.

Alla fine di questo loro allestimento appare chiaro quello che hanno costruito: il loro spazio domestico è più di un recinto chiuso, è un ring.
Con questa potente immagine iniziale César Brie fa esplodere in chi guarda un complesso racconto: che comincia una relazione matrimoniale, che lo scenario di questa relazione è una nuova casa, che questa nuova casa viene accuratamente arredata dai due sposini; e poi pure come è questa relazione, quali vissuti, quali emozioni vi corrono, senti sulla pelle la chiusura asfittica verso l’esterno, immagini i due innamorati presi in movimenti autoreferenziali e ricorsivi, come son quelli fatti girando continuamente attorno ad un anello (ritorna ancora una volta il ring, in inglese).
E poi i due chiudono la porta, dicono che la porta deve rimanere chiusa, “che non entri il freddo, né la paura, né il lupo, né il dolore, né persone”, affinché non entri nulla e nessuno. Questo è l’inizio della fine.
Progressivamente il ring, oltre che anello che chiude nell’autoreferenzialità, transita a spazio della boxe: si snocciolano regole del gioco, le categorie legate al peso, i movimenti da fare, il nome dei pugni da scagliare, con precisione e ricchezza di particolari.
Il menage familiare comincia ad articolarsi in una strana danza, disarmonica, esagerata, di grandi balzi e strattoni.
E poi un match di boxe.
La violenza è lì sulla scena, è arrivata senza che potessi accorgertene, si è insinuata pian piano, dalla normalità che la drammaturgia di César via via comincia a stirare, deformare, esagerare, esasperare. Proprio come accade nella vita. E’ proprio lì la chiave: è nella vita, alberga nell’ordinario, senza soluzione di continuità. Per questo ci appartiene ed è sempre in agguato.
Gli sforzi di lei perché tutto sia impeccabile: nell’affannoso tentativo di prevenire ogni possibile microscopico particolare che possa scatenare la sua ira. Tutto è vano perché ci sarà sempre una ragione: l’inciampo è strutturale e il pretesto il marito lo trova in qualunque cosa e nel suo contrario.
Lei è solo un “corpo che pulisce e lavora, che pulisce e lavora, che pulisce e lavora…”, ripete ossessivamente e con toni di angoscia nella voce via via sempre crescenti, sempre più drammatici, fino a quando non culminano in un urlo di dolore.
“Di chi è questa vita?”
I due nel ring parlano, raccontano, e i loro discorsi scivolano l’uno sull’altro in parallelo: sguardi diversi su quella realtà comune che non è comune, parole che si rincorrono nella totale assenza di ascolto reciproco. “Chi si è infilato per primo il cotone nelle orecchie?” si chiede il marito, come fosse rinsavito per un istante.
La danza e gli incontri di box. Si torna a far pace: coccole, smancerie, e negli anni il primo figlio, poi un altro, e poi un altro ancora. E intermezzi di incontri di box e danze di corpi che scagliano e cadono, colpiscono e incassano, trascinano e si coprono, inveiscono e piangono.
Tra un quadro narrativo e l’altro suona la campana del gong: fine round, si ricomincia.
Scorrono le immagini, una dietro l’altra, potenti: gesti molto evocativi che continuamente aprono al senso e al tempo stesso ristrutturano lo spazio scenico portandoti per mano in tanti luoghi della casa e in tanti tempi della vita matrimoniale che scorre. La scena è tanto chiusa e circoscritta in quel quadrato e con quei due soli attori, quanto altrettanto dinamica, e capace di richiamare un mondo intero di personaggi e di storie. Dalle immagini César Brie è partito per scrivere la sua drammaturgia: ne ha costruite tante, centinaia e poi via via per sedimentazione e cernitura progressiva ne ha distillate alcune che ha montato in sequenza. Infine dalle immagini si è fatto suggerire il testo.
Il marito ad un certo punto piagnucola: “che mi succede, perché mi devo sempre rovinare la vita, perché non conto fino a 10, non me ne vado via di casa prima che sia troppo tardi, che cos’è che mi succede, mi rendo conto che mi vuole bene… un formicolio nel corpo, ecco cosa mi succede e dopo non mi controllo, il sangue mi sale alla testa, le mani mi prudono e poi… scoppio picchio stringo e non controllo più niente… se prendessi delle pasticche! Il suono della sua voce: è quello a farmi uscire di testa, e il tono con cui mi dice di fare o non fare qualcosa… entrare dentro di lei quello voglio, a calci, a pugni…”.
Sì perché la violenza – spiega César Brie – colpisce tanto la vittima quanto il suo carnefice, nel senso che anche quest’ultimo è reso ‘oggetto’ dalla violenza, è agito da essa. “Indolore” vuole raccontare proprio questo, vuole rappresentare i dispositivi della violenza, che imprigionano i due protagonisti in un doppio vincolo indossolubile entro cui la vittima non riesce a sottrarsi dall’esser vittima, e il carnefice è dominato anch’egli da una sorta di comando ad aggredire.
Dopo piatti andati per aria, la tavola violata, nel vuoto della distruzione lui ritorna a ripercorrere i pensieri della chiusura iniziale del focolare “che non entri il freddo, né la paura, né il lupo, né il dolore, né persone”, la chiusura di quella relazione, la gabbia primaria della quale il ring ne è diventato la modalità espressiva. Infine nel buio un forte, profondo e prolungato urlo, di lui questa volta, di disperazione e dolore.
Così si viene congedati dal teatro, con tante domande e la necessità di riflettere, dopo un viaggio di quasi un’ora, che riesce ad essere delicato e struggente al tempo stesso, ed incisivo come un pugno nello stomaco, senza esser mai banale, volgare, né violento, pur raccontando di violenza.

Cèsar Brie (Argentina)
Associazione Culturale Campo Teatrale (Milano)
INDOLORE
Testo e regia: César Brie
con Gabriele Ciavarra e Adalgisa Valvassori
Musiche: Pietro Traldi
Scene e costumi: Paola Tinelli
Andato in scena il 6 dicembre 2013 ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce